PERCHÉ UN PRESEPIO COSÌ?
Da quando San Francesco, a Greccio, ha inventato – per così dire – il presepio, sono stati innumerevoli i tentativi di rappresentare la nascita di Gesù a Betlemme in modo da trasmettere un messaggio che fosse, nello stesso tempo, convincente e originale.
Secondo una tradizione che ancora si conserva, nei giorni di Natale si va a fare “il giro dei presepi”, visitando le varie chiese parrocchiali e qualsiasi altro luogo in cui si è provveduto ad allestire la sacra rappresentazione. Qualche volta l’invito è fatto anche in case private, presso quei vicini che, con fierezza, ci mostrano la loro ultima creazione. Ebbene, in quegli itinerari di scoperta, abbiamo potuto notare l’infinita varietà di idee e di soluzioni, con le quali piace a tutti rendere il presepe attraente, con sempre qualcosa di classico – certo la grotta ci vuole e la Famiglia deve essere quella! – e con qualcos’altro che sia del tutto nuovo.
Il presepio allestito nella sede del Progetto “Agata Smeralda” si propone come una interpretazione del tutto tradizionale della scena della Natività, con un elemento di novità nella scelta dei personaggi presenti. Non è sempre facile distinguere gli uni dagli altri, ma un occhio attento, che magari abbia qualche esperienza di popoli e nazioni, potrà cogliere le diverse provenienze delle persone che, chiamate dagli angeli, si muovono per andare fino a Betlemme, per vedere “questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” (Luca 2,15).
Una vecchia siciliana smette di filare, per vedere quello che accade, mentre, vicina a lei, una giovane svedese esprime la sua meraviglia; un fiero serbo rimane a riflettere, prima di decidere se ci sia qualcosa da fare, mentre sua moglie scruta davanti a sé e si avvicina alla grotta con un pollo da offrire in dono. Due brasiliani, l’uomo un emigrante dalle secche del nordest, lei una baiana necessariamente grassottella, sono in cammino con i loro doni. Una coppia di boliviani sta a guardare e, mentre lei si prende cura del figlioletto, lui si prepara a suonare il “charrango”, piccola chitarra tipica delle regioni dell’altipiano. Forse si farà accompagnare dal ragazzo che è già pronto con il suo flauto da pastore. E avanti così, con gente che viene dall’Africa sub sahariana, dalla Palestina, da lontane regioni dell’Asia, o dal nostro stesso quartiere, come la bambina invalida, che, con passi incerti, si avvicina con un mazzolino di fiori.
I tre Magi, poi, si sa già: il vangelo stesso dice che venivano da lontano, e allora eccoli rappresentati come un arabo, con l’oro, un tibetano, con l’incenso, e un africano, con la mirra.
La scena potrebbe arricchirsi ed essere completata all’infinito con tanti altri personaggi, di tante altre provenienze. L’idea che si è voluta trasmettere è quella di rappresentare l’universalità di un evento che non è avvenuto per essere testimoniato soltanto da alcuni pastori e da qualche straniero, ma che porta con sé l’invito all’umanità intera, per conoscere, capire e accogliere la presenza di Dio che si fa uomo, per abitare in mezzo a noi, per camminare con noi e portarci a ristabilire un’amicizia completa con il Padre che ci ha creati. Il Natale è per tutti, anche, e soprattutto, per quelli che non l’hanno ancora conosciuto. O diciamo meglio: quelli ai quali non siamo stati ancora capaci di farlo conoscere.
La stessa vocazione all’universalità è stata accolta, come segno di identificazione, dal Progetto “Agata Smeralda”, la cui dedizione all’aiuto verso chi è nel bisogno diventa ogni volta più ampio e universale. Ha quindi un senso del tutto reale il fatto di avere gente di ogni provenienza attorno alla grotta in cui Maria e Giuseppe contemplano il bambino appena nato. Alcuni dei paesi rappresentati sono già nella lista di aiuti provveduti del Progetto; altri non ci sono ancora, ma potrebbero esserci in un prossimo futuro.
Perché l’incarnazione del Figlio di Dio è un fatto di portata universale, come ha una destinazione universale la carità che scaturisce da Betlemme e diventa azione di bene verso tutti i bisognosi. Non c’è limite all’amore di Dio. Cogliendo questo messaggio, sentiamo come un’esigenza evangelica il non porre limiti, da parte nostra, per il nostro egoismo, alle manifestazioni di concreta carità verso i tanti fratelli e sorelle che soffrono per le tante forme di povertà.
Dio si fa dono e ci invita ad essere noi stessi dono per i nostri fratelli.
+ Giovanni Tonucci
Arcivescovo Emerito di Loreto