Non dimenticate la gente di Haiti: i bambini muoiono di fame!

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All’indomani del terribile terremoto che devastò Haiti, il Progetto Agata Smeralda si mosse per trovare forme efficaci e durature di aiuto. E subito avviò una collaborazione con Suor Marcella Catozza, missionaria francescana, che da cinque anni vive nel poverissimo paese centroamericano.

Di recente la suora è venuta in Italia, invitata da “Agata Smeralda”, per fare il punto della situazione e concordare gli interventi da effettuare. Ha tenuto incontri ad Empoli ed a Firenze e prima di partire le abbiamo rivolto alcune domande.

Suor Marcella, sono passati nove mesi dal disastroso terremoto. Oggi qual è la situazione?

La situazione attuale continua ad essere difficile. E’ ancora difficile, perché era difficile prima del terremoto, il terremoto la peggiora e stiamo cercando una via d’uscita. In questo momento Port au Prince, che è la capitale dove io vivo da cinque anni, è quasi come il giorno dopo il terremoto. Quindi abbiamo ancora zone intere disastrate. In particolare la zona centrale, che è stata la più colpita, risulta totalmente devastata, ancora con le macerie nelle strade e probabilmente con tutti i morti che queste macerie hanno provocato. Non si accenna alla ricostruzione. Quindi non ci sono scuole attive, non ci sono chiese ricostruite, non c’è in questo momento ancora niente. Si stanno aspettando indicazioni dal Governo, o da chi si sta impegnando per ricostruire Haiti, per capire come e dove ricominciare a vivere in Haiti.

Potresti dire qualcosa di te e delle motivazioni della tua presenza ad Haiti?

Sono Suor Marcella, una francescana missionaria, originaria di Busto Arsizio in provincia di Varese, con nove anni di missione in Albania, dal 1990 fino al 1999, e poi quattro anni nella foresta amazzonica, un anno a Rio de Janeiro e adesso inizio il quinto anno in Haiti. Motivazioni… Tutto iniziò da un viaggio fatto in Haiti per verificare la possibilità di sostenere un progetto di sviluppo di tipo sanitario. Andai in Haiti e conobbi così questa realtà di Haiti, drammaticamente segnata dalla fatica e dal dolore che la gente vive e dall’estrema povertà e dall’assenza totale di tutto. In quei tre mesi di permanenza conobbi alcuni missionari che vivevano lì da anni e che ripetutamente hanno continuato a chiedere aiuto, finché, nel 2005, aiutata a capire se questa potesse essere una cosa che mi interpellava veramente, ecco la decisione di partire, di andare a sostenere la presenza della Chiesa, accolta dal Vescovo locale, che era Mons. Joseph Serge-Miot, deceduto nel sisma di gennaio. Chiese a me e all’altra suora arrivata con me di entrare un po’ come sfida in una delle baraccopoli più violente e chiuse della capitale. Baraccopoli che al tempo era chiusa ai bianchi, per cui era proprio una sfida molto concreta riuscire ad entrare. Da quel viaggio è nata la presenza della Fraternità Francescana Missionaria che appunto oggi sta per compiere il quinto anno di attività.

Senza dubbio, Suor Marcella, i riflettori dei mass media riguardo al dramma di Haiti si sono quasi spenti. Quali sono oggi i bisogni maggiori?

Sì, i riflettori si sono spenti. Se da una parte è un male, perché il mondo rischia di dimenticarsi di Haiti, dall’altra parte per chi sta lì, diciamo, adesso è il momento in cui si può cominciare a lavorare. Perché con il primo arrivo degli aiuti, sproporzionati e soprattutto non organizzati, aiuti materiali ma anche di persone – Port au Prince era stata invasa dalle ONG, da organizzazioni, da associazioni, da volontari che producevano degli effetti sicuramente positivi, perché erano lì con un desiderio buono di aiutare – ma dall’altra parte risultavano negativi, come ad esempio l’effetto dell’aumento dei prezzi in una maniera spaventosa. Perché chi viene da fuori non conosce i prezzi locali e a volte paga delle cifre spropositate per cose che sarebbero molto più economiche. Cifre spropositate che poi però perdurano. Per cui in questi mesi abbiamo avuto un aumento del costo della vita che rende a tutti veramente le cose molto più difficili. Quindi da una parte sì i riflettori che si spengono e diminuiscono gli aiuti, dall’altra parte restando chi veramente ha a cuore ricominciare con questa gente, ci si può guardare in faccia e ci si può dividere i compiti per iniziare a costruire.

Di che cosa ha bisogno Haiti oggi?

Haiti ha bisogno oggi delle stesse cose di cui aveva bisogno il 10 Gennaio, cioè prima del terremoto. Haiti ha bisogno di scuole, ha bisogno di ospedali, ha bisogno di acqua potabile. Non c’è acqua potabile se non quella che si acquista a prezzi spaventosi nei supermercati. Per cui la gente continua a bere acqua non potabile; quindi con tutte le infezioni conseguenti al caso, fino ad arrivare alla morte dei bambini più piccoli per delle semplici diarree. Io lavoro in un ospedale, in un ambulatorio pediatrico e ancora adesso continuiamo a combattere contro questo problema.

Haiti ha bisogno di qualcuno che gli indichi la strada perché sono troppi anni, troppi secoli, in cui hanno voluto cercare di fare da soli e la storia ha dimostrato che non ci sono riusciti. Per cui nel 2010, ad un’ora di volo da Miami, ci troviamo in uno Stato che potrebbe essere l’ultimo Stato del centro Africa raggiungibile in settimane di auto. Invece siamo in pieno continente americano, sulla rotta di ben più famose spiagge, come le vicine della Repubblica Dominicana, meta di turismo. Turismo che sta aiutando la ripresa di un’economia, seppur povera, ma comunque in ripresa.

Haiti, invece, non ha trovato questa strada. Non ha trovato la sua strada, perché non ha trovato un’unità di popolo. Il problema di Haiti, secondo me, è che da sempre ciò che unisce la gente haitiana è l’essere contro qualche cosa. L’essere contro il bianco, l’essere contro gli americani, l’essere contro i francesi. Non c’è una unità data per un qualcosa che si sta costruendo insieme; quindi per una speranza, per un positivo, per un bello. Haiti invece ha bisogno di questo. Cioè ha bisogno non di gente che venga giù a fare dei programmi magari pensati a tavolino in altre parti del mondo, o semplicemente ripetendo programmi di sviluppo già applicati con ottimi risultati in altre parti del mondo; ha bisogno invece di gente che venga giù e si metta accanto a queste persone, e con loro guardi la realtà, con loro capisca i bisogni e con loro cominci a cercare delle risposte. Poi come arrivare a queste risposte lo dovremo decidere insieme.

Aiuti ne sono arrivati tantissimi, soldi ne sono arrivati tantissimi. Il rischio però è che ancora una volta si disperdano risorse economiche e umane, con la possibilità, purtroppo, che le persone che oggi sono ad Haiti per lavorare alla ricostruzione lo facciano senza produrre veramente una speranza per il futuro di questo popolo.

Suor Marcella, noi che cosa possiamo fare?

Beh, avete già fatto molto, questo sicuramente. Intanto sostenendo i primi interventi avviati di fronte all’emergenza, come il progetto di ricostruzione delle case, 122 case, progetto che ho avviato senza disporre della cifra necessaria per farle. Io non avevo forse neanche un decimo della cifra che mi sarebbe servita. Però, francescanamente, credendo nella Provvidenza, ho detto: “Partiamo e gli aiuti non mancheranno”. E così è stato. E’ arrivato l’aiuto di tanti amici, tra cui anche quello di Agata Smeralda. Ci avete mandato un grossissimo aiuto, che è stato proprio quello che mi ha permesso di raggiungere l’obiettivo, di completare la 122esima casa… E ora, appena rientrerò ad Haiti, queste abitazioni verranno consegnate a 122 famiglie. E ciò significa che circa 1.000 persone avranno una casa nuova . Qualcuno, piangendo, mi diceva: “io non ho mai avuto una casa. Ho sempre abitato in una baracca. Ci voleva un terremoto perché io entrassi in una casa”.

Questo ci fa capire la portata di ciò che tutti insieme abbiamo fatto. E di questo aiuto ora sono qui a ringraziare. E con me, in questo ringraziamento, tutta la mia gente di Waf Jeremie, di questa baraccopoli dove viviamo e lavoriamo. Come si può continuare? Adesso si tratta di capire la situazione del post-emergenza, che è comunque un’emergenza…. perché Haiti era in emergenza anche prima del terremoto, per cui continuiamo in questa situazione molto difficile. Come andare avanti? Sicuramente, l’aiuto che il programma di adozione a distanza può dare, per noi è fondamentale, perché ci permette di mantenere vive quelle opere che sono nate nel contesto del post terremoto. Abbiamo un refettorio dove ogni giorno mangiano dai 350 ai 500 bambini, che sono i bambini che abitano nelle baracche lì vicino e che non avrebbero altro pranzo quotidiano. Quindi per loro è il pasto della giornata: e cerchiamo di dare riso e fagioli, o pasta e pomodoro, a seconda delle possibilità. Quindi l’adozione a distanza ci dà la possibilità di continuare a mantenere questo gesto, questo servizio. Ancora, stiamo iniziando a ricostruire la scuola. Una scuola che prevede 12 classi: 3 di asilo e 9 elementari e medie, -che è il loro ciclo basico-, e al cui interno vorremmo poi fare anche la mensa, come usa nelle scuole di Haiti. E anche lì ci saranno bambini che andranno aiutati a frequentare questa scuola, bambini che andranno aiutati a poter usufruire della mensa. Così, dopo aver costruito la scuola, l’adozione ci permetterà di poter mantenere questa presenza, e di garantirla a tanti bambini. Così come l’ambulatorio. Noi abbiamo l’ambulatorio “San Francesco” che da quattro anni era presente all’interno della baraccopoli. L’ambulatorio pediatrico, con il sisma, è stato fortemente danneggiato ed è diventato inagibile, per cui sarà abbattuto. Abbiamo avuto degli amici italiani che ce l’hanno ricostruito, però ci consegnano la struttura terminata, ma completamente vuota. Quindi avremo un ambulatorio pediatrico che si occuperà anche di bambini malnutriti, che si occuperà di donne in gravidanza e che avrà anche uno studio dentistico che però dovrà essere fatto vivere, dovrà essere fatto funzionare. Per cui anche in questo caso l’adozione a distanza, con i bambini da inserire in un programma per i bambini malnutriti permetterà a questa struttura di essere fonte di speranza per questa gente.

Suor Marcella, in questo momento ad Haiti sono maggiori i segni di speranza, oppure è ancora notte?

Ad Haiti, in generale, credo che sia ancora notte, come era notte prima del terremoto. A Waf Jeremie, nella baraccopoli dove noi siamo, è invece esplosa la speranza. Cioè – e così probabilmente ci saranno altri punti all’interno di Haiti che magari io non conosco, perché sono tutto il giorno nella mia realtà di Waf – a Waf Jeremie, dove abbiamo le 122 case, la scuola in costruzione, l’ambulatorio finito, il punto distribuzione acqua, il refettorio sociale quotidiano, la gente è rinata. Per cui si percepisce proprio un clima più disteso, più sereno. I cantieri delle case, della scuola e della clinica stanno dando lavoro a quasi 180 persone della baraccopoli. Sono 180 famiglie che stanno ricevendo un salario, i cui figli magari mangiano con noi. Quindi quel salario può essere usato veramente per gli adulti, o per andare a cercare lavoro più fuori, o per fare delle cose che non si erano mai neanche sognati prima di fare. Quindi dove siamo noi, a Waf Jeremie, baraccopoli di 300 mila abitanti, alla periferia di Port au Prince, la speranza è l’esperienza quotidiana che stiamo vivendo.

Una domanda delicata a proposito dell’infanzia: i mass media hanno parlato anche di traffico di bambini. E’ vero?

Il traffico di bambini ad Haiti c’è sempre stato. Io già avevo avuto un’esperienza di traffico di bambini in Albania e questo mi era anche costato l’espulsione dall’Albania da parte della mafia. In Haiti si parlava fino a poco tempo fa di 2.000 bambini l’anno che da Haiti venivano immessi nel mercato del turismo sessuale nella vicina Repubblica Dominicana. Il fenomeno dello “reste-avec” (dal francese schiavitù domestica), con i bambini venduti alle famiglie borghesi di Haiti come schiavetti, c’è sempre stato. Ci sono diversi missionari, anche italiani, come Padre Stra, primo fra tutti – un salesiano rimasto ferito gravemente sotto le macerie, che spero si sia potuto riprendere – che da anni lavorano per sottrarre questi bambini alla strada e al pericolo della prostituzione. Chiaramente il crollo delle frontiere ha ampliato il fenomeno, perché nei giorni immediatamente dopo il terremoto la frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana era un varco aperto, si entrava e si usciva facilmente. Io stessa sono entrata e uscita senza documenti, con camion, con macchine, con mezzi, con persone. Nessuno ti chiedeva niente.

Haiti era nel caos. La Polizia haitiana non c’era più, perché era impegnata altrove, anche a cercare i propri parenti, i propri familiari, e non solo in manovre di aiuti, evidentemente. Ogni giorno le notizie riportavano arresti fatti soprattutto dalle Forze dell’ONU e anche i nostri Carabinieri italiani hanno partecipato a diversi fermi di stranieri che tentavano di passare la frontiera carichi di bambini. Ora questa cosa pare essersi un po’ fermata, perché ci sono dei programmi specifici che stanno lavorando su questo. Programmi fatti anche dall’UNICEF e da altre organizzazioni specializzate. E c’è una grossa attenzione, soprattutto da parte delle forze dell’ordine militari straniere, più che da quelle haitiane, che magari chiudono un po’ un occhio su queste cose. Quindi il fenomeno si è un po’ ridimensionato, ma c’è sempre stato e purtroppo fa vivere l’economica haitiana. Per cui sarà veramente duro riuscire a sradicarlo completamente.

E la gente ora come sta reagendo al dramma del terremoto?

La reazione che ho visto nella gente haitiana non me l’aspettavo. Sono davvero rimasta edificata: li ho visti passare attraverso un dolore enorme (perché 300 mila morti non sono uno scherzo, e non c’è stata famiglia che non abbia avuto almeno un lutto), li ho visti passare da questa situazione, da questa tragedia, da questa immediata, terribile sensazione che sia finito tutto. Anche io l’ho avuta il primo giorno: “Ok –ci siamo detti- qui è finito tutto anche noi ce ne andiamo. Servono interventi troppo grandi per ricominciare, meglio lasciare il posto a chi più di noi è in grado di operare…”-. Poi però la gente è ripartita e piano piano nella città la vita è tornata normale. Chi aveva la bancarella di banane è tornato con la sua bancarella, sotto le macerie, sulle macerie, con i cornicioni pericolanti sopra la testa. Hanno ricominciato, con il sorriso, con la loro allegria, la loro gioia di vivere. Con loro mi capita di litigarci tantissimo, in particolare quando pretendono: “Ci è capitato questo, dovete aiutarci..” E nel mio piccolo io rispondo: “Ok, noi vi aiutiamo, però ci si mette insieme. Se noi possiamo far questo, voi cercate di fare quest’altro…”. Occorre cercare di provocarli ad una responsabilità. E per la mia esperienza devo dire che quando questa responsabilità viene chiesta, essa viene giocata positivamente. Sì, sono rimasta davvero stupita nel vedere il popolo ricominciare così…

Sorella, ha un appello da rivolgere ai nostri lettori?

Primo, non dimenticateci! Non dimenticate la gente di Haiti. Di drammi nel mondo ce ne sono tanti Dopo pochi giorni vi è stato il terremoto in Cile, ed eravamo così fuori dai riflettori. Come religiosa voglio chiedere, anzitutto, che il primo ricordo sia nella preghiera: affidarci alla protezione della Madonna, ogni giorno. Perché non è uno scherzo: se la Madonna si occupa di noi, noi siamo più tranquilli. E quindi, se glielo chiediamo in tanti, sicuramente questa protezione non mancherà. Affidarle il futuro di questa gente, di questi bambini. Io nell’ambulatorio pediatrico tante volte dico: “Che ne sarà domani di questo bambino? Cosa farà, dove andrà? Resterà qui, avrà dei figli, cosa desidererà…” Affidare dunque nella preghiera ogni haitiano, piccolo o grande che sia. Questo chiedo per prima cosa. E poi, chi può venire… Io lavoro tantissimo con i volontari. E chi ha una settimana, quindici giorni, un mese, un anno, e vuol venire ad Haiti per una compagnia a noi, una compagnia della Chiesa che abbraccia il dolore dell’uomo in ogni angolo della terra, e per un servizio reale, che può essere la scuola, piuttosto che l’ambulatorio, o il refettorio, o piuttosto che la casa di accoglienza. Chiunque possa venire, per noi è una benedizione. Ed è una conferma della strada che stiamo facendo. Ed è un abbraccio in più per questa gente.

E poi, nella misura in cui ognuno può, chiedo di sostenere il progetto che stiamo proponendo, anche attraverso le adozioni a distanza. Perché è un contributo importante, che consentirà a questo popolo di ricominciare a vivere nella speranza.

 

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(intervista a cura di Paolo Guidotti)

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