Un messaggio di speranza dell’Arcivescovo Giovanni Tonucci alla grande famiglia di Agata Smeralda

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E ORA UN GRANDE ABBRACCIO

Il coronavirus è entrato con prepotenza nelle nostre vite e le ha segnate in maniera profonda. Ci ha costretti a cambiare il nostro modo di comportarci; ha chiesto eroismo a chi si è posto in prima linea nella lotta al contagio; richiede coraggio a chi, in questi mesi, ha perso il proprio lavoro; ha falcidiato tante persone a noi note e anche sconosciute; e noi che sopravviviamo sopportiamo malvolentieri i limiti che ci sono stati imposti.

 

Ma, a stare ai dati che seguiamo quasi ogni ora, e che cominciano ad offrire qualche speranza, sembrerebbe che, ormai, la preoccupazione per la pandemia si orienti soprattutto verso il dopo, la “fase due” che aspettiamo e che siamo ansiosi di inaugurare. Ci sono già tante previsioni, che ci dicono che, comunque, le cose non saranno più le stesse di prima e dovremo abituarci a convivere con un nemico ancora sconosciuto, che però ha già mostrato con molta efficacia di essere capace di tragiche imprese.

In attesa di quella liberazione – e quale gioia sarà tornare ai movimenti abituali e alle relazioni personali di sempre – ho letto prospettive terribili per il nostro futuro: pare che dovremo dimenticare le vacanze all’estero; e al ristorante dovremo restare a distanza; e nelle discoteche si conterà un numero limite di presenze. Un incubo solo a pensarci!

In questi giorni, ho ricevuto un messaggio da un amico di un paese latinoamericano. Fa il tassista, ma ora è obbligato a restare in casa e quindi a non lavorare. Per questo non ha soldi per comprare da mangiare per la sua famiglia. Ha dovuto umiliarsi e chiedere al negoziante di poter pagare appena possibile. Ma il negoziante ha il suo stesso problema.

Un secondo messaggio, da un altro paese dello stesso continente, mi fa capire quello che sta accadendo nelle periferie delle grandi città. Anche lì, l’ordine dato dalle autorità è quello di isolarsi restando in casa. Ma come si può essere isolati in una baracca minuscola in cui sono ammucchiate tante persone, in mezzo a tante altre baracche, tutte addossate l’una all’altra, nella stessa situazione di mancanza di spazio e di servizi sanitari? Le fonti ufficiali dicono che il contagio non è molto esteso, forse perché le fonti ufficiali non vanno a verificare quello che succede nelle “favelas” e, in fondo, chi abita in quegli agglomerati probabilmente non è interessante per le statistiche ufficiali.

Noi ci preoccupiamo, giustamente, perché si prevede che domani saremo più poveri. Ognuno potrà fare i suoi conti e valutare in quale proporzione lo saremo: da quale livello dovremo scendere? Quanto manca ancora per giungere a un vero disagio? C’è però tanta gente che povera lo è già da ora, e in queste circostanze paga un prezzo ancora più alto.

In occasione di ogni crisi economica, la tentazione per me, che vedo ridurre le mie possibilità, è quella di chiudermi agli altri e di pensare soltanto a me stesso. Eppure, il mio di meno è sempre molto di più del pochissimo che hanno i poveri veri, che sono maggioranza nel mondo e continuano a crescere.

Nei giorni di questa nostra Pasqua, così diversa e strana, vissuta in un isolamento fisico, a mala pena superato da contatti virtuali, potremo ripensare al messaggio di amore di Gesù, che ha proclamato che “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). Lo stesso che ha anche detto: “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

Nella tanto attesa e desiderata “fase due” potremo forse abbracciarci di nuovo. Ma fin da ora la carità ci permette di abbracciare il mondo intero: un abbraccio non superficiale ma dono vero e concreto di vita.

+ Giovanni Tonucci
Arcivescovo

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